P. era rientrato da poco da una crociera, e già si trovava immerso in una nuova tempesta: febbre alta, famiglia da gestire, e un’agenda che sembrava esplodere.
Quando ci siamo ritrovati per la seconda sessione, la sua voce era affaticata ma decisa.
Voleva riprendere il filo di un lavoro cominciato da tempo: mettere ordine nel caos, dare direzione a una quotidianità ingovernabile.
Gli avevo chiesto di portare il suo diario settimanale e, mentre lo descriveva, emergeva una narrazione che aveva poco della parola “routine”.
Riunioni sovrapposte, attività frammentate, momenti in cui era padre, marito, imprenditore e formatore in sequenze quasi cinematografiche.
Il coaching qui non era solo una riflessione: era una necessità.
La vacanza, se così si poteva chiamare, non aveva fatto altro che rendere ancora più visibile quel sovraccarico.
Un riposo forzato che aveva messo in luce la mancanza di confini tra lavoro e vita privata.
Quando gli ho chiesto di visualizzare quel carico emotivo e mentale su un disegno, P. ha risposto: “95% pieno”.
Una figura quasi completamente tinta di rosso, pronta a traboccare.
Questo è un classico paradosso strategico: quando si cerca il controllo di tutto, si perde proprio quel margine di manovra che consente di alleggerire.
E infatti P. parlava di delega.
O meglio, del conflitto costante che viveva nel delegare troppo – e dover correggere dopo – o nel non delegare affatto, ritrovandosi a lavorare da solo alle due di notte.
Qui abbiamo introdotto un principio centrale del coaching strategico: non si può risolvere un problema con lo stesso modo di pensare che lo ha generato.
Abbiamo cominciato a spostare il focus dalla quantità alla qualità, dalla rincorsa delle urgenze alla progettualità concreta.
P. ha riconosciuto che spesso confondeva le due cose: priorità e urgenze si mescolavano come acqua e olio.
E anche se scrivere era per lui una priorità vera, finiva spesso sepolta sotto le scadenze.
La sua consapevolezza era lucida, ma non ancora attiva.
Qui il lavoro si è spostato su una leva strategica: la costruzione di micro-routine orientate a obiettivi, non a compiti.
Blocchi di agenda, momenti intoccabili, riunioni con uno scopo chiaro.
Abbiamo lavorato sulla distinzione tra attività produttive e attività grigie, un esercizio che P. proponeva ai suoi collaboratori, ma che non aveva mai applicato su sé stesso.
Il coaching ha fatto da specchio.
E poi c’era l’elemento più difficile da quantificare: il senso di colpa.
Quando era con la famiglia pensava al lavoro, e quando era al lavoro pensava alla famiglia.
Un’invasione mentale reciproca che consumava energie.
La svolta è arrivata quando ha riconosciuto che il vero cambiamento non poteva essere solo tecnico, ma identitario: doveva darsi il permesso di staccare.
E in questo sua moglie giocava un ruolo fondamentale.
Lei, a suo dire, “una santa”, era l’unica a imporsi quando lui non riusciva a farlo da solo.
A fine sessione, P. non aveva una soluzione perfetta, ma aveva una nuova direzione.
Meno perfetta, più efficace.
E soprattutto, più umana.
(CONTINUA NEL PROSSIMO CAPITOLO)