Ci sono persone che, quando parlano, sembra che stiano trascinando un’intera giornata sulle spalle.
P. è una di queste.
Quando ha iniziato il percorso di coaching, P. non cercava una soluzione miracolosa, ma una direzione nuova per riorganizzare ciò che aveva già: impegni, doveri, desideri, aspettative.
Era carico, e non solo di lavoro. Carico di tutto. E questo tutto, pian piano, stava diventando troppo.
La prima cosa che ha detto è stata:
“Le ore sono le stesse per tutti, ma io le sto vivendo tutte, tutte insieme.”
Una frase che dice molto più di quanto sembri.
P. è padre, marito, imprenditore, professionista.
Ha una squadra da far crescere, clienti da seguire, un figlio piccolo con cui condividere tempo ed energia, una casa nuova piena di aspettative e promesse fatte a sé stesso.
Quando ha parlato della sua situazione, l’ha fatto con una metafora potente:
“Mi sento una locomotiva con troppi vagoni. Sto cercando di far partire altre locomotive, ma per ora devo ancora mettere io il carbone a tutti.”
È un’immagine chiara, viscerale, che descrive benissimo una delle trappole più comuni per chi è abituato a essere efficiente: il tentativo di moltiplicarsi invece che riorganizzarsi.
Il tema centrale non era il tempo, ma la pressione.
E soprattutto, la delusione di non riuscire a onorare l’equilibrio promesso a sé stesso e alla sua famiglia.
P. ha già iniziato a delegare alcune attività, ma la delega, in questa fase, è diventata essa stessa una fonte di stress.
“Per delegare devo affiancare, spiegare, controllare. Mi sto ritrovando a fare il doppio di quello che facevo prima.”
Nel coaching strategico, queste sono le cosiddette soluzioni tentate disfunzionali: strategie pensate per risolvere un problema che, in realtà, finiscono per rinforzarlo.
Anche la gestione del tempo, nel suo caso, si era trasformata in una prigione: ogni giorno era saturo, ogni ora già assegnata.
Usava liste, applicazioni, strumenti digitali. Ma spesso, proprio lui, generava nuove attività che lo distoglievano dalle vere priorità.
“Alcune cose me le impongo io, perché mi piacciono. Così non faccio quelle che dovrei davvero fare.”
Il piacere come via di fuga dall’urgenza. Una strategia comprensibile, ma controproducente.
E poi c’erano gli imprevisti.
Come una multa dell’Agenzia delle Entrate, che lo ha tenuto impegnato per quattordici ore tra mail, PEC, commercialisti, deleghe, carte.
Quattordici ore per dimostrare di avere ragione. Una battaglia vinta, ma a quale costo?
Quello che emergeva era un senso continuo di rincorsa, una tensione costante tra l’intenzione di organizzarsi e la realtà che disorganizza.
Gli ho chiesto come si sentiva, fisicamente.
“Stanco. Dormo poco. A volte ho mal di schiena. E quando lavoro la sera dopo una giornata passata con mio figlio, non ce la faccio più.”
Ma ha anche aggiunto:
“Passo da un’attività all’altra per non stancarmi troppo su una sola.”
E qui si intravedeva una strategia funzionale. Cambiare compito per non cedere alla fatica.
Una forma intelligente di gestione dell’energia.
Il suo problema non era solo nel carico oggettivo, ma nella percezione soggettiva del tempo.
Aveva interiorizzato l’idea che il valore si misura con la produttività.
E ogni pausa era un potenziale senso di colpa.
La sessione si è conclusa con un’attività, costruita su misura partendo dalla sua stessa metafora.
Gli ho chiesto di immaginarsi come una locomotiva che viaggia su un binario storto.
E di osservare, nei giorni successivi, cosa può fare per raddrizzarlo.
Quali vagoni può lasciare, quali può alleggerire. Quali binari può ridisegnare.
Il coaching non ha risposto al suo sovraccarico con un’agenda nuova, ma con uno sguardo nuovo.
Gli ha offerto lo spazio per accorgersi che la sua forza, se non canalizzata, rischia di trasformarsi in fragilità.
E che a volte, per continuare a correre bene, serve fermarsi un attimo.
Non per smettere, ma per decidere se si sta davvero andando nella direzione desiderata.
(CONTINUA NEL PROSSIMO CAPITOLO)