Nel terzo incontro, la consapevolezza era più radicata. “Mi sento più sicura quando non devo dimostrare nulla,” ha detto. Una frase semplice, ma potente. M. aveva iniziato a capire che l’autostima non cresce nella performance, ma nella sospensione del giudizio.
Abbiamo lavorato sulle emozioni “residue” che continuavano a ripetersi, analizzando il loro impatto nella quotidianità. La diplomazia è emersa come risorsa relazionale: chiarire prima che un fraintendimento diventi ferita. Non sempre possibile, ma utile quando si può.
Il diario emotivo, iniziato nella sessione precedente, è stato arricchito: non solo eventi problematici, ma anche piccoli successi, momenti di consapevolezza, reazioni diverse. Questo ha aiutato M. a costruire una narrativa nuova: meno centrata sulla colpa, più sulla gestione.
Infine, abbiamo lavorato sull’esercizio dell’osservazione distaccata dei pensieri ricorrenti, una tecnica utile per ridurre l’identificazione automatica con le emozioni giudicanti. In pratica, si tratta di imparare a riconoscere il pensiero disfunzionale nel momento in cui si attiva, creando uno spazio tra stimolo e risposta.
Non per negarlo, ma per agire in modo più funzionale e meno reattivo.
A causa di impegni personali, il percorso si è interrotto dopo questa terza sessione. Ma il cambiamento era già in corso. M. aveva avviato un lavoro interno che, pur nella sua apparente fragilità, era più stabile di qualsiasi maschera da “persona efficiente”.
Non era diventata una nuova persona, ma aveva cominciato a trattarsi in modo diverso. E questo, nel coaching strategico, è il vero punto di svolta: modificare la relazione con il problema, non solo il problema in sé.
FINE