Nella seconda sessione, M. ha portato un esercizio: un “what if” positivo, in cui immaginava una versione di sé capace di non giudicarsi. Il testo, quasi un prologo di un romanzo mai iniziato, mostrava qualcosa di nuovo: un pensiero più tollerante, più umano. “Se riuscissi a non mortificarmi, vivrei con meno ansia e più lucidità.”
Da qui abbiamo attivato un secondo livello strategico: l’esasperazione del problema. Le ho chiesto di scrivere un “what if negativo”: peggiorare consapevolmente una situazione, esagerare la reazione emotiva, immaginare il peggio. È una tecnica paradossale che funziona come uno specchio distorto: vedersi nell’eccesso permette spesso di riconoscere il proprio ruolo nella dinamica disfunzionale.
M. ha descritto scene di sovraccarico lavorativo, stress familiare e senso di colpa continuo. Ma, per la prima volta, ha iniziato a osservare questi comportamenti con distanza critica. Il pensiero strategico si era attivato: “Sono io che mi porto al collasso, non la situazione in sé.”
(CONTINUA NEL PROSSIMO CAPITOLO)