M. ha trent’anni, una voce gentile e uno sguardo costantemente all’erta. Lavora in un’agenzia di pompe funebri — un contesto dove la precisione è cruciale e l’errore, almeno nella sua percezione, non è contemplato. Ma il suo sogno, quello vero, non è dietro a una scrivania. È dietro una tastiera, tra le righe di un romanzo che scrive a tratti, per poi abbandonarlo schiacciata da un pensiero ricorrente: “Non sono abbastanza.”
Quando ha chiesto un percorso di coaching, non cercava la motivazione per scrivere, ma la forza per non mortificarsi ogni volta che qualcosa andava storto. Non voleva diventare “perfetta”, voleva smettere di sentirsi sbagliata.
Nel primo incontro è emerso un nodo profondo: M. non voleva solo “diventare più sicura”, ma smettere di logorarsi di fronte all’errore. Mostrava un paradosso evidente: da un lato, sapeva di avere talento nella scrittura e buone capacità organizzative sul lavoro. Dall’altro, ogni sbaglio, anche minimo, si trasformava in una condanna interiore.
Rileggere una mail decine di volte, ricontrollare ogni pratica amministrativa, e poi sentirsi comunque responsabile per qualcosa andato storto, anche se causato da altri. M. sembrava muoversi in un contesto mentale rigido, dove ogni errore confermava un’idea negativa su di sé. L’autostima era ostaggio di un principio: “se sbaglio, valgo meno”.
Nel coaching strategico, quando il coachee è incastrato in schemi autoreferenziali, l’obiettivo non è contrastarli direttamente, ma portarli a farne esperienza da un punto di vista diverso. Abbiamo aperto uno spazio: cosa succederebbe se, dopo un errore, non arrivasse più l’autocondanna? L’idea era ancora lontana, ma il dubbio aveva messo radici.
(CONTINUA NEL PROSSIMO CAPITOLO)