Quando tutto corre troppo: la storia di P. e il paradosso del tempo Capitolo 4

C’era un momento in cui P. sentiva di portare sulle spalle uno zaino troppo pieno. La sensazione era quella di camminare costantemente in salita, con il fiatone dell’urgenza, il peso delle scadenze e la voce interiore che ripeteva “ancora uno sforzo, ancora un progetto, ancora un sì”. In quel sovraccarico quotidiano, che si presentava travestito da impegno, responsabilità e dedizione, si era insinuato un dubbio sottile: sto davvero scegliendo o sto solo reagendo?

Durante le prime sessioni, P. aveva preso consapevolezza di quanto la sua tendenza a dire sì a tutto fosse radicata in una forma di autoesigenza e nel desiderio di fare bene, sempre. Ma più cercava di tenere tutto sotto controllo, più si ritrovava a rincorrere il tempo, con la sensazione di perdere pezzi importanti di sé e della propria vita familiare. Aveva provato mille strumenti per organizzarsi: app, CRM, calendari, reminder… ma niente sembrava davvero bastare. Finché, durante un periodo in Bulgaria, aveva preso una decisione rivoluzionaria per lui: fermarsi. Non in senso assoluto, ma nel dare un freno al ritmo. Dedicarsi a fare il marito e il papà. Staccare la spina non per fuggire, ma per ascoltare. E nel silenzio di quei giorni, aveva sentito una voce più chiara delle altre: “non devi salvare il mondo. Se non lavori, non muore nessuno”.

Quella frase, detta da sua moglie con disarmante sincerità, si era piantata dentro di lui come una ristrutturazione mentale potentissima. Non era un’accusa, era una spia. Proprio come quelle della macchina: non un segnale di guasto irreversibile, ma un campanello d’allarme che ti invita a fermarti, aprire il cofano e guardare dentro. Sua moglie, in questo senso, era diventata per lui un feedback vivente. Non perché lo giudicasse, ma perché rappresentava quel limite necessario che spesso, da solo, non riusciva a darsi. “Non c’è nulla di personale”, si erano detti. “È solo un dato di realtà”.

Insieme avevano ricostruito il percorso a ritroso: dal bisogno di dire basta, alla consapevolezza che certe scelte organizzative non funzionavano più, fino al punto di partenza – la sua tendenza a riempire, accumulare, sovraccaricarsi per paura di non essere abbastanza. Avevano messo in discussione l’equilibrio tra lavoro e famiglia non come antagonisti, ma come sistemi da armonizzare. Ed era lì che il coaching aveva fatto da catalizzatore. Non per offrire risposte preconfezionate, ma per creare quello spazio strategico in cui le domande potevano finalmente trovare il tempo di esistere.

Alla fine della quarta sessione, P. non aveva risolto tutto. Ma aveva costruito una nuova metrica: passare dal 95% di carico al suo “80% ideale”. Un numero simbolico, certo, ma profondamente strategico. L’80% rappresentava il margine in cui respirare, improvvisare, essere presenti. Rappresentava la possibilità di continuare a fare il lavoro che ama – perché sì, P. ama profondamente ciò che fa – ma senza sentirsi intrappolato da esso. Quel 20% di spazio liberato era lo spazio della libertà: per stare con la famiglia, per rispondere con lucidità alle emergenze, per ricordarsi che, a volte, anche l’efficienza ha bisogno di umanità.

Il coaching strategico non è stato per lui una bacchetta magica, ma un campo di allenamento. Un luogo in cui esercitare nuovi muscoli decisionali, nuovi equilibri, nuovi modi di percepire se stesso. E anche se la percentuale esatta potrà variare nel tempo, il vero obiettivo non era il numero. Era tornare a sentire che stava scegliendo. E che ogni sì detto a ciò che conta, comincia sempre con un no a ciò che pesa.

FINE

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