Il coraggio di cominciare: il mio primo caso di coaching strategico Capitolo 1

M. entrò in sessione con un misto di entusiasmo e cautela. Aveva un obiettivo chiaro ma ancora avvolto da una nuvola di incertezza: voleva iniziare a presentarsi al mondo come coach. Ma da dove si comincia a dire al mondo chi si è, quando si ha la sensazione di non essere ancora “abbastanza”? La sua voce, ferma ma prudente, rivelava un dilemma profondo: da una parte la volontà di esporsi, di uscire dal bozzolo, dall’altra il timore che fosse troppo presto. Forse dopo l’esame. Forse quando si sentirà più esperta. Forse… più pronta.

Il problema non era se volesse farlo. Lo voleva. Ma rimandava. Rimandava perché non sapeva come presentarsi. Rimandava perché si domandava se fosse il momento giusto. Rimandava perché, sotto sotto, forse non si sentiva legittimata a farlo.

Nel dialogo, emerse che il vero blocco non era tecnico. M. non era frenata da una mancanza di strumenti, ma da una profonda indecisione sul come. Non sapeva da dove cominciare, non sapeva cosa dire di sé, non sapeva quali canali usare – LinkedIn? Instagram? Nessuno?

La domanda implicita, che prendeva forma nella conversazione, era questa: “Chi sono io per presentarmi come coach?”. E, come spesso accade nel coaching strategico, il problema si rivela per ciò che non è prima ancora che per ciò che è. M. non aveva un problema di contenuti. Aveva un problema di percezione. Si sentiva ancora troppo inesperta per sentirsi “autorizzata” a raccontarsi.

Il dialogo continuò come una lenta esplorazione del labirinto: ogni domanda non cercava una risposta, ma una deviazione strategica, un punto d’ingresso diverso. Il coach non impose una soluzione, ma pose il problema da un altro angolo. E se bastasse cominciare senza aspettare di sentirsi pronta?

Un momento chiave fu quello in cui le fu chiesto di immaginarsi davanti a un foglio bianco. Un grande spazio libero su cui scrivere chi è come coach, non con un testo, ma con parole chiave. Nacquero così le sue prime definizioni autentiche: “ascolto”, “supporto”, “accompagnamento”, “presenza empatica”.

Non erano slogan. Non erano tecnicismi. Erano le parole che parlavano di come M. è, e non solo di cosa fa. Ed è proprio in questo passaggio che si fece strada una consapevolezza: non serviva aspettare l’esperienza perfetta o il momento giusto. Bastava raccontarsi a partire da ciò che già era vero.

Nel coaching strategico, questo passaggio è fondamentale: aiutare il cliente a passare dalla paralisi del “non posso ancora” alla possibilità concreta del “posso iniziare da qui”. Smontare la trappola dell’attesa infinita per il momento ideale, che spesso non arriva mai.

Quando si cominciò a parlare delle presentazioni fatte in passato – ai colloqui di lavoro, per esempio – M. si rese conto che sapeva già parlare di sé. L’aveva fatto decine di volte. Ma in contesti in cui parlava del proprio passato, del proprio curriculum. Ora si trattava di qualcosa di più sottile: presentarsi per quello che è diventata, e non solo per ciò che ha fatto.

Questa differenza fu illuminante. Smontò l’idea che servissero grandi esperienze per legittimarsi come coach. Le bastava partire da ciò che già aveva acquisito, dai percorsi fatti, dalle trasformazioni vissute, anche come coachee. Bastava dichiarare il punto da cui partiva. Non dimostrare di essere arrivata chissà dove.

Verso la fine della sessione, M. riconobbe qualcosa di semplice ma potente: “Potrei anche iniziare, in effetti… anche solo con qualcosa di breve.” Ed è in quella frase che si condensò il cambiamento.

Nel coaching strategico, si dice spesso che non si può attraversare il fiume restando sulla riva a riflettere sulla corrente. Bisogna mettere il piede nell’acqua. In quel momento, M. aveva fatto proprio questo: aveva spostato il focus dall’essere pronta… al cominciare a muoversi.

E questo primo passo, come sempre, apre la strada a tutti gli altri.

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