Il coraggio di cominciare: il mio primo caso di coaching strategico Capitolo 6 

Quando M. è tornata in sessione, lo ha fatto con una nuova postura. Non nel corpo — che sembrava rilassato come sempre — ma nel modo in cui parlava di sé. Le parole erano più dirette, meno incerte. Qualcosa si era spostato. Non era ancora una trasformazione definitiva, ma un cambiamento di livello. Un passaggio da “sto cercando di capire chi sono come coach” a “ora so chi voglio essere, e ci sto andando incontro”.

Questa sesta sessione non è stata un bilancio nel senso classico del termine. Non abbiamo “ripassato” tutto il percorso. Lo abbiamo attraversato di nuovo, ma da un’altra angolazione. E come in ogni buon percorso strategico, non si trattava di guardare indietro, ma di vedere cosa era diventato possibile solo dopo aver camminato fino a lì.

Abbiamo ripreso in mano la presentazione professionale che M. aveva rielaborato nella sessione precedente. L’ha letta ad alta voce. Con esitazioni, certo, ma con la volontà — che non è mai scontata — di esporsi. Di dirsi. Di accettare il rischio di sentirsi autentica davanti a un altro.

Il testo era più solido. Meno costruito. Raccontava davvero M., il suo percorso, la sua presenza come coach. Ma qualcosa ancora stonava. Non nel contenuto, ma nel modo in cui si relazionava ad esso. C’era una parte di lei che sembrava ancora chiedere il permesso di esistere. Come se, pur avendo scritto chi era, non si sentisse del tutto legittimata a esserlo.

Nel coaching strategico, il lavoro non si ferma alla performance. Si va a cercare il sistema che la produce o che la inibisce. E in M., questo sistema era ancora attivo. Un meccanismo che la portava a interrogarsi sempre su come sarebbe stata percepita. Se la sua voce sarebbe sembrata “giusta”. Se la sua esperienza sarebbe stata “abbastanza”.

Allora siamo tornati su una domanda fondamentale: “Per chi stai scrivendo questa presentazione?”

Inizialmente ha risposto: “Per le persone che potrebbero cercare un coach”. Ma subito dopo, in un’esitazione, è arrivata la verità: “La sto scrivendo per me. Per ricordarmi che lo sono.”

In quel momento, la sessione ha cambiato tono. Non era più un lavoro sul testo. Era un lavoro sull’identità. Sul diritto a dichiararsi. E sulla fine di un bisogno antico: quello di chiedere continuamente conferme all’esterno.

M. ha compreso che quella bio non era un biglietto da visita. Era un gesto di auto-legittimazione. E che, come ogni gesto autentico, doveva essere fatto prima di tutto per sé.

Alla fine della sessione, non abbiamo stabilito un “obiettivo successivo”. Non serviva. Perché il percorso non finiva lì, ma cambiava semplicemente forma. Da allenamento guidato a cammino autonomo. E il coaching, quando è ben fatto, serve proprio a questo: rendersi progressivamente superfluo.

Oggi M. ha in mano molto più di una presentazione. Ha una mappa fatta di parole che sente sue, una voce che ha imparato a usare e una direzione verso cui muoversi. Ha, soprattutto, la consapevolezza che essere coach non significa “dirlo bene”, ma “esserlo anche quando si ha ancora paura”.

E forse, proprio lì, in quella vulnerabilità accolta, c’è la vera forza di chi accompagna gli altri nei loro cambiamenti.

FINE

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